Il figlio maggiorenne invalido, ancorché titolare della pensione di inabilità civile e dell’indennità di accompagnamento, non ha diritto automaticamente alla concessione della pensione ai superstiti alla morte del genitore (pensionato o lavoratore). Per poter ambire alla prestazione è necessario l’accertamento del più stringente requisito sanitario richiesto dall’articolo 8 della legge 222/1984 e cioè l’impossibilità a svolgere qualsiasi attività lavorativa confacente alle proprie capacità. La precisazione non è da sottovalutare, vale a mettere in guardia quanti ritengono di poter conseguire automaticamente la prestazione di reversibilità per il solo fatto di essere inabili civili al 100%.
Per la prestazione ai superstiti in realtà il legislatore ha fissato un requisito sanitario più stringente consistente nell’accertamento dell’inidoneità a svolgere tutti i lavori che l’assicurato, per condizioni fisiche, età, preparazione culturale ed esperienza professionale, sia capace di espletare. In altri termini non è possibile porre a fondamento della concessione della pensione ai superstiti per il figlio maggiorenne invalido le tabelle previste per la valutazione dell’invalidità civile.
Queste ultime, infatti, sono dettate per l’accertamento della diminuzione della capacità di lavoro generica mentre per la prestazione in esame è necessario verificare la diminuzione della capacità di lavoro in occupazioni confacenti alle attitudini specifiche del lavoratore. Non si può, quindi, presumere il diritto alla pensione ai superstiti dalla titolarità della pensione di inabilità senza che l’assicurato sia sottoposto ad un accertamento sanitario specifico e da condursi con criteri ermeneutici diversi rispetto a quelli che hanno dato luogo al riconoscimento dell’invalidità civile. E ciò è tanto più vero se si considera che l’invalido civile al 100% può svolgere un’attività lavorativa consistente e compatibile con le sue condizioni fisiche mentre per la prestazione in parola lo svolgimento di un’attività lavorativa fa presumere l’inesistenza della totale inabilità. E quindi il rigetto della domanda.
La giurisprudenza di legittimità ha declinato a più riprese i canoni che devono guidare l’interprete in questa analisi. Tale giudizio deve essere operato secondo un criterio concreto, ossia avendo riguardo al possibile impiego delle eventuali energie lavorative residue in relazione al tipo di infermità e alle generali attitudini del soggetto, “in modo da verificare, anche nel caso del mancato raggiungimento di una riduzione del cento per cento della astratta capacità di lavoro, la permanenza di una capacità dello stesso di svolgere attività idonee nel quadro dell’art. 36 Cost. e tali da procurare una fonte di guadagno non simbolico” ( ex multis Cass. n. 26181 del 2016). La valutazione deve essere, peraltro, individuata esclusivamente con riferimento all’infermità ovvero al difetto fisico o mentale, non già a circostanze estranee alle condizioni di salute (es. situazioni occupazionali).
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